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RUNNING WILD – “Blood On Blood”

RUNNING WILD
“Blood On Blood”

(SPV Steamhammer, 2021)

Eccolo qui il diciassettesimo album targato Running Wild, giunto ad un buon lustro da quel “Rapid Foray” che aveva timidamente riacceso la speranza di ascoltare i bucanieri tedeschi di nuovo in forma.

Ormai sono parecchi anni che è difficile parlare di una band vera e propria, visto che il buon Rolf Kasparek è sempre il solo e unico artefice di voce, chitarra solista, composizioni e produzione; a parte il secondo chitarrista Peter Jordan, presente dal 2004, la sezione ritmica è stata negli ultimi vent’anni un costante viavai di collaboratori e membri più o meno stabili.
Questo ovviamente fa sì che il nome Running Wild sia identificabile da decenni come un progetto solista di Rock N’ Rolf, con tutti i pro e i contro che ciò comporta.

“Blood On Blood” ha avuto una gestazione di un paio di anni, certamente influenzata dall’emergenza sanitaria mondiale, arrivando alla pubblicazione ufficiale solo a fine ottobre 2021. 

Il primo impatto è senza alcun dubbio quello che ci si poteva aspettare, considerate anche le tre anteprime diffuse nei mesi precedenti (“Crossing The Blades”, “Diamonds & Pearls” e “The Shellback”). Lo stile è inconfondibilmente quello di Rolf & ciurma, in tutto e per tutto: heavy metal di classico stampo tedesco e zeppo di melodia, con un gran lavoro di chitarra e gli immacabili cori da birreria teutonica.
Quello che manca è magari il brano killer e in generale l’ispirazione dei tempi andati, anche se è ovvio che non si può pretendere la luna dopo ben tre decenni dalla “sacra cinquina”, ovvero gli album che vanno da “Port Royal” del 1988 a “Black Hand Inn” del 1994.

Su “Blood On Blood” ci sono alcune belle canzoni che richiamano più o meno apertamente il periodo d’oro e risultano anche piuttosto piacevoli: per esempio la title track funziona bene col suo riff frizzante e il suo ritornello semplice ma incisivo, mentre “Wings of Fire”, tipico mid tempo in perfetto stile Running Wild, è un brano degnissimo del nome che porta. 

Niente male nemmeno le già note “Crossing The Blades” e “The Shellback”, con quest’ultima che sfoggia la melodia portante della gloriosa “Black Hand Inn” in apertura, per poi svilupparsi in un brano roccioso ed evocativo.

Non si può però dire altrettanto di episodi sotto tono come l’imbarazzante “Wild, Wild Nights”, in cui Rolf sembra voler scimmiottare l’hair metal degli anni ’80 con risultati pessimi, oppure dell’improbabile semi-ballad “One Night, One Day”, nella quale la sua voce aggressiva va proprio a cozzare con quella che vorrebbe essere una canzone dall’atmosfera teatrale.

I dieci minuti e mezzo dell’ultima traccia “The Iron Times (1618-1648)” potrebbero far alzare gli occhi al cielo a più di un ascoltatore… e invece questo pezzo, basato sulla guerra dei Trent’Anni, è di gran lunga il migliore di tutto il disco: bella melodia portante, ritmo incalzante, ritornello azzeccato e parte centrale di grande effetto. Riecco finalmente i Running Wild capaci di raccontare episodi storici o folcloristici con classe e creatività, con una di quelle tipiche suite che in passato hanno chiuso più di un loro album.

Tutto sommato non è un brutto disco ma siamo ben lontani da un capolavoro e onestamente, anche un filo sotto il precedente “Rapid Foray”.
Purtroppo e del resto come sempre negli ultimi anni, la produzione è quanto meno discutibile, con tutta l’enfasi posta sulle chitarre e con il solito, orrendo, legnoso suono di batteria che, se non è una drum machine (e credo che lo sia!), è Michael Wolpers che suona con i fustini del detersivo e i coperchi delle pentole.
Se non altro, la voce di Rolf sembra migliorata rispetto all’ultimo disco e ci sono effettivamente quei momenti in cui sembra quasi di sentire il vecchio pirata di una volta.

Insomma, non c’è nulla per cui gridare al miracolo ma i fans sfegatati della band avranno pane per i loro denti.
E poi, è pur sempre un nuovo album dei Running Wild nel 2021, mica roba da poco!

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